I disturbi d’ansia: la soggettività della minaccia

Buongiorno e ben trovati!

Oggi vorrei trattare dell’ansia e dei disturbi ad essa correlati, essendo questi particolarmente diffusi, ad oggi, all’interno della popolazione.

L’ansia è un’emozione di base; ciò significa che è un’emozione universale, presente in ogni popolazione a prescindere da etnia, età, genere o lingua. Dal punto di vista evoluzionistico l’ansia si innesca nel momento in cui l’individuo riscontra una minaccia all’interno dell’ambiente in cui risiede. L’ansia infatti – come tutte le altre emozioni – presenta una peculiare predisposizione all’azione, definita di “attacco – fuga” (Eysenk, 2006). Nel momento in cui siamo di fronte a qualcosa di minaccioso o pericoloso, l’attivazione emotiva ansiosa produce una risposta fisiologica in grado di preparare il nostro organismo ad agire o attaccando l’oggetto minaccioso, qualora si ritenga di avere le competenze e le abilità per contrastarlo, o fuggendo dallo stesso nel momento in cui si percepisce la propria inferiorità rispetto al pericolo.

L’ansia può essere quindi definita come «l’apprensione innescata da una minaccia a qualche valore o scopo che l’individuo ritiene essenziale alla sua esistenza. La minaccia può essere alla vita fisica (per es. la minaccia di morte o di malattia) o all’esistenza psicologica  (perdita di libertà o di sicurezza); oppure la minaccia può essere diretta a qualche altro valore che il soggetto identifica come prioritario nella propria esistenza (il patriottismo, il successo, l’amore per un’altra persona, ecc..).» (Francesco Mancini). Da quanto descritto dal professor Mancini (psichiatra, psicoterapeuta e direttore del circuito di scuole di psicoterapia cognitiva comportamentale APC-SPC-AIPC-SICC-IGB) è possibile intuire quanto sia centrale, nell’attivazione dell’ansia – e degli stati emotivi in genere – , l’interpretazione che ogni singolo individuo fa di un evento. L’ansia infatti si innesca nel momento in cui la persona arriva alla seguente conclusione: “quell’evento è per me una minaccia”. Questa valutazione è in parte cosciente ed in parte condotta attraverso processi automatici ed inconsapevoli; si basa inoltre su esperienze passate e sul senso comune (Andrews, Creamer, et al., 2003). Ne consegue che non è l’evento, ma i pensieri legati all’evento che determinano un certo vissuto emotivo, come per l’appunto quello ansioso.

Facciamo un esempio: immaginiamo di trovarci nella condizione di dover sostenere un esame universitario. Alcuni potranno considerare tale evento come minaccioso e pericoloso, altri potranno attribuirgli significati di diversa natura. Ma prendiamo in considerazione il primo gruppo. Suppongo che molti riusciranno ad immedesimarsi in questa situazione; accade spesso infatti che gli studenti – me compresa – provino vissuti d’ansia poco prima di un esame. Ma come agiamo in risposta a questo vissuto emotivo? Alcuni si prepareranno a dovere e, nonostante l’intensa attivazione emotiva, decideranno di sostenere l’esame ed esporsi al rischio di un fallimento; altri ancora invece, decideranno, nonostante siano preparati, di non presentarsi all’esame e di evitare il pericolo, compromettendo però di raggiungere il traguardo della laurea. In quest’ultimo caso, quindi, l’ansia avrà avuto un impatto disfunzionale sulla vita della persona.

Ma cosa spinge verso l’una o l’altra risposta comportamentale? Per maggiore chiarezza risulta utile fare qui riferimento alla “formula dell’ansia”: un espediente didattico che prende in prestito le regole matematiche delle frazioni al fine di rendere più chiaro il funzionamento di quest’emozione.

Da tale formula si evince che più il pericolo è considerato imminente (vicino in termini di tempo), più si ritiene che sia probabile che l’ipotesi di pericolo si possa verificare (ad esempio il fallimento di un esame universitario), più si ritiene che il pericolo sia grave ed oneroso (ad esempio perché intaccherebbe l’immagine di sé o perché comprometterebbe una relazione o un altro scopo importante per l’individuo), tanto più il vissuto ansioso sarà intenso. Ciò che modula tale attivazione emotiva è invece ciò che ritroviamo al denominatore della formula: se una persona percepisce le proprie abilità congrue alla risoluzione della minaccia e se ritiene che vi siano aiuti esterni a sé (supponiamo degli appunti nascosti sul banco durante un esame scritto), il vissuto ansioso si potrà ridurre. È quindi in relazione a questi due fattori che un individuo sarà più portato a mettere in campo una risposta comportamentale di attacco o di fuga. Inoltre, è sufficiente che anche soltanto uno dei fattori del numeratore sia assente – e quindi abbia valore zero – per far sì che la risposta ansiosa cessi di esistere.

È bene però sottolineare, a scanso di equivoci, che l’ansia è un’emozione che proviamo tutti e che è utile per salvaguardarci da possibili pericoli. Secondo il paradigma evoluzionista, infatti, «l’uomo possiede, fin dalla nascita, una serie di disposizioni o tendenze innate – relative a diverse forme di attività mentali o comportamentali diretti a mete – che sono frutto della lunga storia di evoluzione dei primati» (Liotti, 2001, p.9); quindi, ciò che ci caratterizza ancora oggi e che è rimasto – per lo più – immutato nel corso degli anni, ha una valenza, un motivo per esistere; ci è utile nell’affrontare le nostre vite. Ecco che l’ansia, emozione spesso demonizzata ed odiata, risulta invece essenziale per la nostra sopravvivenza. Tale aspetto è facilmente riscontrabile attraverso l’approfondimento della teoria di Yerkes-Dodson (1908), famosa per aver aiutato a comprendere la correlazione tra lo stato di attivazione ansiosa ed il rendimento ad una performance. È stato infatti dimostrato che un’adeguata e moderata dose d’ansia risulta essere propedeutica per l’affrontare compiti e prove dal momento che permette di incrementare le abilità di concentrazione ed attenzione verso gli stimoli. Al contrario, livelli eccessivamente alti o bassi d’ansia risultano essere controproducenti, rispettivamente perché produrrebbero un’interferenza nella memoria di lavoro, occupata da informazioni riguardanti la minaccia e la possibilità di sottrarsi ad essa, o perché non permetterebbero di avere quell’adeguato livello di attivazione utile a motivare l’individuo nello svolgimento di un compito.

Da quanto fin qui esposto è quindi possibile concludere che «il nodo del disturbo degli stati d’ansia non coinvolge il sistema affettivo, come si è portati a credere, ma gli schemi cognitivi connessi alla sensazione di pericolo, a causa dei quali la realtà esterna viene vissuta come estremamente pericolosa ed il proprio sé come estremamente vulnerabile» (Beck, 1985, p. 192 in Wells, 1999). In altre parole: il nucleo psicopatologico dei disturbi d’ansia è strettamente connesso ai processi di pensiero che entrano in gioco nell’interpretazione di un evento.

Detto ciò verrebbe quindi da pensare che i pazienti con disturbo d’ansia ragionino e pensino diversamente da chi non ne è affetto.

Beh in realtà è esattamente il contrario.

Le ultime ricerche scientifiche sui processi di pensiero e di ragionamento alla base della psicopatologia indicano che in realtà non vi è alcuna differenza tra soggetti “sani” e soggetti affetti da un disturbo psicologico. Inizialmente alcuni clinici ritenevano che i pazienti utilizzassero processi di pensiero caratterizzati da errori logici cui conseguiva una certa sintomatologia. In realtà studi di ricerca più moderni hanno dimostrato che ragioniamo tutti alla stessa maniera, facendo esattamente gli stessi errori logici. Ciò che differenzia un individuo “sano” da uno affetto da psicopatologia riguarda la quantità, la frequenza con la quale vengono utilizzati alcuni processi di pensiero (Cardella, Gangemi, 2018).

Per quanto concerne i disturbi d’ansia, uno dei processi di pensiero che entrano più in gioco è il ragionamento iperprudenziale, denominato “Better Safe Than Sorry” (BSTS), traducibile in: meglio prevenire che curare (Cardella, Gangemi, 2018). Ad esempio, se ci troviamo in un luogo pubblico e scatta l’allarme antincendio, la prima ipotesi che faremo in merito alla situazione sarà verosimilmente “c’è un incendio in corso, sono a rischio”; cercheremo allora velocemente delle informazioni che possano validare la nostra ipotesi di pericolo, magari valutando il comportamento delle altre persone o cercando del fumo a riprova del fatto che ci sia un incendio; non appena riscontreremo anche soltanto un indizio che possa indicare la presenza del pericolo, confermeremo la nostra ipotesi di partenza. Qualora decidessimo di valutare un’ipotesi alternativa, come ad esempio una possibile esercitazione, andremo a ricercare informazioni che smontino tale ipotesi, falsificandola, dimostrando così ancora una volta la validità dell’ipotesi di pericolo. Assumendo questo tipo di ragionamento, una volta interpretato l’evento come minaccioso, avremo un’attivazione emotiva ansiosa, cui conseguirà una risposta comportamentale di fuga dall’edificio: il rischio di prendere in considerazione le ipotesi alternative più positive sarebbe stato troppo elevato (ad esempio la possibilità di ustionarsi o di perdere la vita) tanto che l’individuo sarà portato a mettere in atto un errore logico. Sì, perché i dettami del ragionamento logico prevedono che un’ipotesi risulta essere vera fino a prova contraria e che pertanto per verificare un’ipotesi è necessario provare a falsificarla cercando informazioni che potrebbero contrastarla; qualora la nostra ipotesi regga anche ai tentativi di falsificazione sarà possibile affermane la veridicità. In realtà ognuno di noi, in un momento di pericolo e minaccia, al fine di rendere più probabile la nostra sopravvivenza, è predisposto a confermare l’ipotesi di pericolo, evitando rischi considerati troppo elevati (“meglio prevenire”). Tale disposizione innata ha lo scopo di evitare errori di sottovalutazione del pericolo che avrebbero per noi costi enormi.

Questa tipologia di ragionamento è quella che più si presenta in soggetti affetti da disturbo d’ansia. Queste persone infatti valutano come minacciose e pericolose situazioni che vengono interpretate in modo più positivo dalla maggior parte delle altre persone. Ciò è riconducibile ad ulteriori aspetti cognitivi, come le convinzioni e le assunzioni, che modulano le modalità interpretative di ognuno di noi (Wells, 1999). Se ad esempio una persona presenta come assunzione “sintomi fisici poco chiari sono solitamente segni di una malattia molto grave”, sarà probabilmente portato a valutare un fastidio al fianco o un leggero mal di testa come indice di un pericolo serio per la propria incolumità ed attiverà di conseguenza il ragionamento iperprudenziale di cui abbiamo appena parlato.

In realtà quindi, per comprendere se i vissuti ansiosi si collochino all’interno della “normalità” o della patologia, è necessario indagare se vi siano aree della vita della persona che risultino essere intaccate da tali vissuti. In altre parole: quando l’ansia diventa da ostacolo per il raggiungimento di mete o scopi importanti per il soggetto tanto da provocargli sofferenza, allora è probabile che vi sia in effetti un disturbo d’ansia. In questi casi diventa quindi necessario richiedere l’aiuto di uno specialista, come uno psicologo o uno psicoterapeuta.

Per concludere, un aspetto davvero interessante di quanto fin qui esposto risiede proprio nel fatto che sia chi non presenta disturbi mentali, sia chi ne è affetto utilizza processi di pensiero e di ragionamento perfettamente identici; ciò che li distingue è la quantità, la frequenza di utilizzo. Le ultime scoperte scientifiche quindi, oltre ad avere un’enorme importanza rispetto alle adeguate strategie di cura da adottare nei percorsi psicoterapici, permettono di scardinare – o almeno di iniziare a scardinare – l’assunto errato che afferma che i pazienti siano diversi, presentino caratteristiche strane, inusuali, sbagliate, quasi fossero portatori di una colpa che li rende “altro-da-noi”.

Vi ringrazio per aver letto e vi lascio con una citazione, monito per ulteriori riflessioni.

«Per noi i pazzi erano loro, per loro i pazzi eravamo noi. Ma loro, maledetti, erano molti di più.» (paziente del Bethlem Hospital di Londra, in Cardella, Gangemi, 2018, p. 17)

A presto,

Giulia Bongiovanni, psicologa.

Bibliografia:

Andrews, G., Creamer, M., Crino, R., Hunt, C., Lampe, L., Page, A. (2003). Trattamento dei disturbi d’ansia: guide per il clinico e manuali per chi soffre del disturbo. Centro Scientifico Editore, Torino.

Beck, A.T., Emery, G. (1985). Anxiety disorders and phobias: a cognitive perspective. Basic Book, New York.

Cardella, V., Gangemi, A. (2018). La logica della follia: razionalità e irrazionalità nella psicopatologia. Corisco Editore, Roma-Messina.

Eysenk, M. W., (2006). Psicologia Generale. Idelson-Gnocchi, Napoli.

Liotti, G. (2001). Le opere della coscienza: psicopatologia e psicoterapia nella prospettiva cognitivo-evoluzionista. Raffaello Cortina Editore, Milano.

Wells, A. (1999). Trattamento cognitivo dei disturbi d’ansia. McGraw-Hill Education, New York.

Yerkes RM, Dodson JD (1908). The relation of strength of stimulus to rapidity of habit-formation. Journal of Comparative Neurology and Psychology. 18 (5): 459–482. 

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